Startup, innovazioni e capitali a Roma. L’analisi di Gianmarco Carnovale

Ecosistemi in evoluzione. Questo nuovo concetto interpretativo può essere applicato alle città? È una chiave di lettura nuova, che analizza i contesti urbani rispetto alle loro potenzialità sistemiche, non limitandosi più ad una lettura solo strutturale e di servizio. Roma, città complessa e connessa, come può essere interpretata alla luce del tema “innovazione”?

Ne abbiamo parlato con Gianmarco Carnovale, nome noto al mondo delle startup e dell’innovazione. Si presenta come imprenditore, tecnologo, architetto di ecosistemi, facilitatore di connessioni, ed è tra i pionieri dell’innovazione sulla scena romana, fin dalla fine degli anni ‘90.

Parliamo di innovazione: ci aiuti a darne una definizione precisa

Io farei una distinzione fra innovazione, formazione e ricerca. Perché innovazione è un termine preciso, non indica l’impresa in genere, ma è un catalizzatore di avanzamento tecnologico, creatività e capacità di esecuzione, oltre al problem solving incrementale, a beneficio di chi quella innovazione la deve acquistare. Innovare è far accadere – attraverso la tecnologia – dei miglioramenti nei processi delle società umane, perché se non c’è una ricaduta effettiva, una soluzione nelle società, quella che facciamo non è innovazione, può essere laboratorio, teoria, ricerca, ma l’innovazione si differenzia perché è qualcosa che accade.

Decliniamo allora questa definizione proiettandola su Roma

Nel contesto romano l’innovazione poggia sulle delle precise premesse: grandi possibilità di interconnessione con il resto del mondo. Per quanto si parli di Milano come di un luogo più internazionale, i numeri parlano invece di Roma come città più globale d’Italia. A Roma ci sono agenzie delle Nazioni Unite, tre network di ambasciate, è fra le città preferite dai ‘nomad’, gli stranieri che scelgono di viverci per una parte della loro vita. Roma è anche la città della ricerca: le sedi del Cnr, dell’Agenzia spaziale italiana, per citarne alcune. Roma è una fucina di talenti, ospita il più grande polo universitario europeo, con quasi 300.000 iscritti, seguita da Barcellona che ne ha 200.000.

Penso siano questi gli ingredienti fondamentali perché l’innovazione accada, e perché vada ad innescare ricadute sulle industrie presenti ma anche su progetti potenziali nei settori più vari: energia, difesa, comunicazioni, elettronica, design, computer science.

È poco noto, ma le università romane sono fra i maggiori nodi della comunità per le computer science, hanno operato con l’Ai ben prima che diventasse un tema caldo, come anche sulle deep tech, la computer science, o la ricerca aerospaziale, per non parlare della blockchain . Si tratta di ambiti ad alta complessità. Ci sono delle fasi evolutive nel processo che trasforma la tecnologia in impresa, ad alto tasso di ricerca e know-how, ben più complesse del mero ambito ‘digital’, che io definisco ‘easy innovation’, perché sviluppare app o marketplace e servizi online può essere fatto ovunque, ed è un settore più proiettato su internet e web.

Restiamo a Roma, per capire come si sviluppa l’ecosistema delle startup

Si tratta di un ‘ecosistema di originazione’: si pone nella fase iniziale della filiera, e punta a sostenere ricerca, talento, voglia di fare impresa nel fare i primi passi, trasformare una visione in impresa e raccogliere il pre-fedd e il feed. È un ecosistema estremamente focalizzato sulla prima fase di sviluppo, e si poggia proprio sui contesti universitari e di ricerca. È come dire che c’è un grandissimo campo, e l’ecosistema romano si concentra sul far sì che i semi germogliano, come in una serra in cui viene fatta la parte di germinazione. Manca però lo sviluppo delle fasi successive, Roma non dispone delle grandi dotazioni di capitale che servono, in misura crescente, per trasformare quei germogli in grandi alberi, per restare nella metafora. Chiariamo un punto: non ho detto che mancano i capitali, mancano piuttosto gli operatori del venture capital, quasi completamente assente la cultura dell’investimento di capitali di rischio.

Roma città finanziaria?

Nell’immaginario collettivo italiano è effettivamente a Milano che si colloca il mondo finanziario, ma questo non è completamente vero: nella rancking annuale dei poli mondiali della finanzia Milano risulta il 41mo polo e Roma 43mo, a Roma c’è però un tipo diverso di gestione finanziaria, non c’è capitale di rischio. E ricordiamoci che nelle concentrazioni e fusioni bancarie degli scorsi decenni a Roma è stata tolta una banca territoriale di riferimento.  Santo spirito, Cassa di risparmio di Roma, etc, sono state interessate dai processi fusione e aggregazioni bancarie, con risultato che Roma non ha oggi una sua “grande banca”, e questo si porta via tutto l’indotto.

Rispetto poi ai venture capitalist, questi per definizione investono ovunque, sull’impresa migliore, e investono su scala internazionale, ma è evidente che a seconda di dove sono basati è più facile che anche le startup di zona ne traggano vantaggio.

Rispetto però al tema dei poli finanziari e poli d’impresa, i venture capitalist italiani sono nati per lo più a Milano, perché generati da corporate finance e settori contigui presenti a Milano ma, appunto, non a Roma e questo è una conseguenza.

In Italia c’è un paradosso: tanta ricerca e poco trasferimento tecnologico, pochi brevetti registrati. Questo potrebbe influire.

Diciamo che una quota marginale, circa il 40% per cento delle startup provengono dalla ricerca, dal tecnology transfer, ed in Italia questo manca, ma resterebbe il 60%… se ci domandiamo perché non ci sono molte startup che arrivano al ‘tech transfer’, possiamo risponderci che il mondo universitario in Italia è per sua struttura e cultura, nonché per obiettivi, quanto di più lontano ci sia dal percorrere il percorso del rischio, che è connesso all’impresa.

Immaginiamo la ricerca ed il mondo universitario come un grande imbuto: in molti si iscrivono, poi vengono filtrati fino a far emergere i ricercatori che diventano assistenti e poi professori. Come vengono selezionati? Non per merito puro o qualità di ricerca e talento, ma per predisposizione a perseguire le regole del modello universitario.

E come funziona invece all’estero?

Fuori dall’Italia il mondo universitario è strettamente meritocratico, e questo favorisce la formazione di ricercatori di altissimo livello, di cui viene coltivata l’ambizione. Questo sistema favorisce il percorso verso l’impresa di eccellenza, il ricercatore ambizioso non ha timore di creare mega startup. Nel sistema italiano questo potrà accadere difficilmente, perché è strutturato affinché il ricercatore rimanga legato all’università. Di conseguenza, i ricercatori italiani che vogliono creare le startup, che vogliano investire nel mondo della ricerca e del technology transfer, devono rinunciare alla carriera sicura universitaria, nella maggior parte dei casi.

Abbiamo detto che il 40% del mondo startup si genera nel contesto universitario, e l’altro 60%?

In Italia per lo più manca perché mancano i capitali, da noi poco ‘educati’ a sostenere il rischio. Avremmo molti talenti pronti a spiccare il volo, ma i capitali italiani sono pochi e poco propensi all’ alto rischio per l’ alto rendimento. È anche per questo che le startup italiane si spostano all’estero, dove trovano offerta di capitali coerente con l’ambizione di fare impresa.

Un quadro interessante, che lascia immaginare scenari futuri più rosei… 

È vero, perché parliamo di un potenziale immenso. Roma ha tutte le potenzialità per diventare – nel contesto del bacino Mediterraneo – quello che Londra è stata per il resto dell’Europa. Roma è una fucina di talento immensa, ha una qualità della vita invidiata dal resto del mondo, se fosse un luogo che offre lavoro chiunque vorrebbe vivere a Roma. C’è anche ricchezza, bisogna metterla a fattor comune, questo candiderebbe Roma a diventare il maggior polo d’innovazione del mondo.

Titti Nicoletti

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