Cultura digitale: ossimoro o hype?

Scuola contro Social Network

Sembra esserci una spaccatura tra studi classici e nuove tecnologie digitali: un binomio difficile, anche se per alcuni legato ad un futuro inevitabile e quindi da sponsorizzare. Maestri e professori sono spesso schierati a favore dei vecchi metodi di insegnamento, e vedono nei a videogiochi e nei social network dei distrattori che riducono la capacità di mantenere l’attenzione e dunque quella di approfondimento con i loro video che durano una manciata di secondi e vengono subito dimenticati prima di guardare il successivo, e loro foto di influencer di successo ricchi e felici.

La posizione degli insegnanti è chiara: mala tempora currunt se i nostri ragazzi invece di stare sui libri di testo passano il tempo sui giochini o guardano tutorial online su come vestirsi o challenge sempre più stupide e pericolose. Tralasciando la risposta degli studenti è interessante quella degli sviluppatori di videogiochi e social network: quanto ci credete voi nell’educazione scolastica? per sviluppare quello che gli insegnanti chiamano giochino come GTA6 si è investito un miliardo di dollari, nel 2021 il fatturato di META è stato il doppio di quanto lo Stato Italiano ha destinato all’istruzione.

Ma è possibile conciliare cultura e tecnologie digitali, il pessimismo intimista di Leopardi che scava dentro l’anima con le foto glamour delle vacanze di un influencer? O l’unico punto di incontro è una bella foto in bikini alle Maldive e sotto la scritta “e il naufragar m’è dolce in questo mare”?

Tra gli insegnanti c’è qualcuno che ci prova, come l’ormai famoso professore della fisica che ci piace Vincenzo Schettini che spopola sui social e ora anche in TV. Lui stesso ha però lamentato che alcuni suoi colleghi lo hanno criticato. Invidia? Ai posteri l’ardua sentenza.

Nelle sue pubblicità, l’azienda di Zuckerberg META ha puntato sul mostrare i benefici educativi del Metaverso che verrà, mostrando gli studenti del futuro prossimo che attraverso la realtà virtuale si ritrovavano davanti ai dinosauri o nell’antica Roma. Non è fantascienza: già ora si può andare al Circo Massimo ed affittare dei visori di realtà virtuale per vedere come è stato costruito e come è stato nel momento del suo massimo splendore.

To Game or not to Game

Ma se fosse così sarebbe fantastico, è l’edutainment: studiare storia sarà come entrare in un videogioco e combattere coi romani nell’ora di storia e visitare il Giappone nell’ora di Geografia. Il neologismo formato da education e entertainment, educazione e intrattenimento fa spesso coppia con un altro termine: la gamification, rendere l’apprendimento un gioco. E la gamification ha le sue parole chiave: obiettivi, risultati, ricompense, motivazione, coinvolgimento, organizzazione, abilità, produttività, sfida, livelli… ma questi sono le parole chiave della società capitalistica in cui viviamo, non del gioco, fa notare Lupetti sulle pagine di Menelique. Ma forse il problema non sono i videogiochi, bensì che modello di scuola si vuole: se si studia solo per trovare lavoro questi saranno i contenuti, indipendentemente dal modo di insegnarli.

Il gioco infatti è altro e non si sposa esattamente con i doveri lavorativi. In quest’ottica, il gioco diventa allora atto di ribellione almeno quanto l’elogio dell’ozio di Bertrand Russell, e il videogioco diventa l’ottava arte, con la sua fantastica grafica e le sue storie sempre più complesse. Ma qualcuno comunque ci guadagna: vale la pena tenere a mente le parole di Tristan Harris (ex dirigente di Google) nel documentario The Social Dilemma: “Se non stai pagando per un prodotto, allora il prodotto sei tu”, se ti stanno offrendo qualcosa gratis è perché hanno venduto te, il tuo tempo, la tua attenzione. Siamo tutti Pinocchio e i Social Network sono il nuovo Paese dei Balocchi, e il Gatto e la Volpe non ci chiedono più i nostri soldi in modo esplicito, ci chiedono solo di “ascoltarli per un momento”, come cantava Bennato.

Platone e il Metaverso

Attenzione, però, non si confonda il contenuto con il contenitore: sia la scuola che i social sono solo dei contenitori. Purtroppo troppo spesso l’approccio è come adattare i contenuti culturali ai contenitori digitali che già esistono, senza pensare a modalità di istruzione completamente nuove che sarebbero possibili. Forse il problema è che abbiamo creato figure professionali iperspecializzate nel loro settore che non riescono a creare ponti tra discipline diverse perché poco multidisciplinari, professionisti perfettamente in grado di inserirsi nello schema della società ed incapaci di pensare fuori dagli schemi. Perché di questo si tratta: se cerchiamo di mettere i contenuti classici nei contenitori digitali che abbiamo a disposizione sarà come provare a far entrare un elefante in un negozio di elettronica, magari ci riusciremo pure, ma poi non sapremo che farci.

Paradossalmente a volte sono più le aziende digitali a pescare nella cultura classica: i CAVE, Cave Automatic Virtual Enviroment (che potremmo tradurre come caverna di ambiente virtuale automatico, stanze virtuali) traggono l’origine del loro nome da un omaggio al mito della caverna di Platone, in cui il filosofo immagina alcuni uomini imprigionati in una caverna che possono guardare solo le ombre delle cose, ma avendole viste per tutta la vita pensano che siano quelle la realtà, che poi è il senso della realtà virtuale: oggetti digitali più belli di quelli reali, foto photoshoppate che ci raccontano di un mondo perfetto. A proposito di cultura delle immagini, sta peraltro spopolando l’uso dell’Intelligenza Artificiale (AI) per dare forma ai personaggi letterari o le scene dei libri, io stesso tempo fa per una lezione sul metaverso chiesi ad un’AI di disegnare uno scenario partendo dall’incipit della Divina Commedia.

L’immagine sotto è un esempio in grado di competere con le famose illustrazioni di Gustave Doré del poema dantesco. Il timore degli insegnanti è che ora gli studenti usino l’AI per farsi fare riassunti e traduzioni, timore più che lecito, che in passato fu incarnato dai Bignami e libri di versioni: ora è diventato solo tutto più semplice e a portata di un clic. E sta anche per arrivare il Metaverso, parola inventata dallo scrittore Neal Stephenson nel romanzo cyber-fantascientico Snow Crash del 1992, che diceva chiaramente: “Hiro non è affatto lì dove si trova, bensì in un universo generato dal computer che la macchina sta disegnando sui suoi occhialoni e pompando negli auricolari. Nel gergo del settore, questo luogo immaginario viene chiamato Metaverso. Hiro trascorre molto tempo nel Metaverso. Lo aiuta a dimenticare la vita di merda del D-Posit”.

Si perdoni la parolaccia, ma è una citazione letteraria molto chiara: se lasciamo ai nostri figli un mondo di merda, allora loro si rifugeranno nel mondo digitale, cosa molto più semplice del provare a cambiare questo mondo, utopia delle generazioni passate che purtroppo sembra ormai persa in una selva oscura.

Immagine creata da un’AI chiedendole di dar forma al testo: “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita”

Il Progetto NeuroArtifact: un ponte tra cultura classica e nuove tecnologie

Ma una volta i ragazzi non si rifugiavano forse nei libri per sfuggire la realtà? Non c’è un vero aut-aut tra cultura e mondo digitale, dobbiamo solo essere in grado di pensare a possibili ponti tra questi due mondi. Tra le tante iniziative che cercano soluzioni nuove, c’è il progetto NeuroArtifAct finanziato dalla Sapienza di Roma per favorire la terza missione dell’Università (oltre all’insegnamento e la ricerca, quella di interagire con il tessuto sociale per favorire gli scambi scientifico-culturali con il territorio).

La digitalizzazione delle opere d’arte è ormai cosa comune, anche per preservarle nel tempo o per consentire di vederne un surrogato virtuale comodamente da casa. Ma il progetto NeuroArtifAct è andato oltre. Intanto c’è una componente Neuro, per capire l’effetto dell’arte sul nostro cervello e per capire come l’arte possa essere “brain-friendly”, più facilmente fruibile e stimolante. Studi di neuroestetica hanno mostrato che l’arte attiva molte aree del cervello tra cui i circuiti dopaminergici della ricompensa e persino le aree motorie: il potere emozionale dell’arte sollecita il nostro cervello a pensare all’azione che vediamo attivando le nostre aree motorie anche se sia noi che il soggetto dipinto siamo in realtà fermi. Anche per questo l’Organizzazione Mondiale della Sanità supporta l’uso dell’arte e dell’arte-terapia sia come strumento di prevenzione per il benessere che di cura per la salute, dividendo l’arte terapia in fruizione (guardo un’opera d’arte, ascolto un brano musicale…) o produzione (dipingo, suono…). Sfortunatamente, è difficile che chi dipinga o suoni sia in grado di creare arte altrimenti saremmo tutti artisti, eppure volevamo lo stesso unire questi due aspetti nella neuroriabilitazione del paziente con ictus. E così, grazie alla realtà virtuale è stato possibile dare al paziente l’illusione di riuscire a replicare esattamente un capolavoro della storia dell’arte: egli diventa al tempo stesso artista e fruitore della bellezza. Ovviamente sotto l’occhio attento del fisioterapista che decide la grandezza e la posizione della tela, corregge i movimenti scorretti e facilita quelli che vuol far fare al paziente. Gli stessi pazienti che spesso si lamentavano dei “giochini” digitaliche gli venivano fatti fare con device commerciali durante la terapia sembrano provare meno fatica ed essere più motivati da questo nuovo approccio.

Ma non si è fermato qui il progetto. Abbiamo portato gli Etruschi in Ospedale: abbiamo ripreso con un particolare scanner laser 3D, capace di campionare un milione di punti per metro quadro, l’intero Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia e abbiamo portato questo percorso tridimensionale ai pazienti in attesa della loro terapia. Abbiamo iniziato a sperimentare questo approccio con i pazienti mentre fanno dialisi e presto inizieremo con donne operate al seno mentre fanno chemioterapia. Non un semplice documentario da guardare, ma una totale immersione nel museo grazie ai caschetti di realtà virtuale che porterà i pazienti con la loro mente fuori dall’ambiente ospedaliero, per ridurre lo stress e l’ansia, cosa che l’arte riesce a fare, come dimostrato da diversi studi scientifici sui quali si basano le ipotesi di questo progetto.

Da questa mia esperienza ho tratto tre regole che potrebbero essere utili a chi vuole coniugare la cultura classica con le nuove tecnologie digitali:

  1. Studiare ciò che c’è per fare ciò che non c’è (per pensare fuori dagli schemi bisogna prima studiare a fondo: abbiamo dovuto approfondire i risultati degli studi di neuroestetica per ideare un sistema di realtà virtuale non che replicasse semplicemente in digitale l’arte terapia, bensì per far fare alla persona qualcosa di impossibile nel mondo reale: dipingere un capolavoro o visitare un museo stando in ospedale)
  2. Le tecnologie digitali sono solo un mezzo che va riempito di contenuti (durante il nostro studio abbiamo trovato molti altri studi che parlavano di efficacia della realtà virtuale nell’apprendimento e nella riabilitazione, come se ciò fosse indipendente da cosa ci fosse nella realtà virtuale, un po’ come dire che leggere è importante indipendentemente se siano le istruzioni della lavastoviglie o una poesia di Alda Merini: vero, ma l’approccio è a dir poco grossolano)
  3. Creare delle brain-friendly experiences (capire cosa si vuole stimolare nel soggetto, se gli aspetti cognitivi, emotivi o motori, capire come questi siano strettamente correlati, è fondamentale per poi progettare come farlo e riuscirci, altrimenti saranno solo “giochini”)

Immagine di una ragazza che “dipinge” in realtà virtuale la Ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer nel progetto NeuroArtifAct

Marco Iosa

Professore del Dipartimento di Psicologia dell’Università Sapienza di Roma e Responsabile del Laboratorio per lo Studio della Mente e dell’Azione nella Riabilitazione Tecnologica (SmArt Lab) della Fondazione Santa Lucia

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